I coniugi Bonafari
Ai primi del 1400 in contrada Santa Margherita abitava Baldo Bonafari con la moglie Sibilla de’ Cetto, vedova del giureconsulto Bonaccorso Naseri da Montagnana, morto impiccato a Padova nel 1390 per il sostegno dato a Gian Galeazzo Visconti, nemico dei Carraresi.
Sibilla de’ Cetto
Sibilla era figlia di Gualperto Cetto, un ricco mercante, prestatore di denaro, proprietario terriero, che lasciò erede del suo patrimonio Sibilla, unica sua figlia, la quale in base al diritto canonico doveva restituire gli interessi usurari estorti dal padre durante la vita.
Nonostante la pratica del prestito a usura fosse condannata dalla Chiesa, questo non impedì a Gualperto di occupare un posto di rilevo nella comunità patavina, né di nutrire una fede religiosa che si manifestò nella devozione per l’ordine francescano.
Nel suo testamento egli chiese di essere sepolto nella chiesa antoniana e ordinò un legato perpetuo per la celebrazione di messe di suffragio.
La stessa devozione era viva nella moglie Benedetta che fu sepolta, pure lei, nel chiostro di Sant’Antonio.
Sibilla aveva sposato verso il 1370 Bonaccorso Naseri, consigliere di Francesco il Vecchio da Carrara, la cui famiglia manifestava invece predilezione per l’ordine domenicano, tanto da ordinare la costruzione del sepolcro di famiglia nella chiesa di Sant’Agostino.
In seguito però la famiglia si orientò verso il clero cittadino e scelse la chiesa di San Lorenzo nel cui territorio si trovava la contrada di Santa Margherita, dove abitavano i Naseri.
Anche Sibilla fu legata a San Lorenzo e ai suoi rettori per tutto il periodo del matrimonio con Bonaccorso, tanto più che in San Lorenzo erano stati sepolti i suoi figli, deceduti in tenera età.
Ma ben presto la famiglia Naseri cadde in rovina per i conflitti politici.
Quando nel 1388 i Carraresi lasciarono Padova in mano ai Visconti, Giovanni Naseri e i figli Bonaccorso e Antonio passarono a sostenere Gian Galeazzo.
Dopo due anni, al ritorno di Francesco Novello, i Naseri dovettero subire la vendetta dei Carraresi. Bonaccorso fu catturato e impiccato in piazza dei Signori nel giugno del 1390.
Sibilla, rimasta vedova, restò in città, entrò in possesso del patrimonio del marito Bonaccorso e dopo lunghi procedimenti legali le fu riconosciuto il diritto alla restituzione della dote e dell’eredità paterna sottrattale dal suocero Giovanni.
Baldo Bonafari
Circa un anno dopo la morte del marito, Sibilla si risposò con Baldo Bonafari, che era originario di Piombino e aveva ottenuto la cittadinanza padovana da Francesco Novello da Carrara, per benemerenze politiche, essendo stato referendario e consigliere fedelissimo del signore di Padova.
L’avvio dei lavori
I coniugi, devotissimi di san Francesco, vollero impiegare i loro beni in un’opera grandiosa di carità.
Quando nell’episcopio patavino, di fronte al vescovo Pietro Marcello e ad altri testimoni, Baldo Bonafari e la sua consorte Sibilla de’ Cetto dichiaravano di voler donare parte dei loro beni per la costruzione di una chiesa con convento, di un ospedale e di una sala per la Confraternita della Carità in contrà Santa Margherita, opere da destinare ai Minori Osservanti, ebbero il pieno consenso.
Si trattava di un immenso complesso che praticamente fra fabbricati e orti comprendeva lo spazio ora racchiuso tra via San Francesco (l’antica via del Soccorso), via del Santo e via Galilei (l’antica via Vignali ).
Il Bonafari si riservava il diritto di eleggere il rettore dell’ospedale, diritto che alla sua morte sarebbe passato al Collegio dei giuristi dell’Università degli studi di Padova.
La prima pietra fu posata il 25 ottobre 1414 dall’arciprete della Cattedrale, Bartolomeo degli Astorelli, presente il maestro Matteo da Ravenna “murarius”, probabile architetto.
La costruzione della chiesa nel territorio della vicina parrocchia di San Lorenzo provocò dapprima qualche contrarietà e incertezza, ma in seguito il vescovo autorizzò i lavori che da allora procedettero spediti, guidati dal capomastro Nicolò Gobbo.
Due bolle del papa Martino V, una del 1419 e una del 1420, autorizzarono i frati ad accettare chiesa e convento costruiti per loro.
L’autorizzazione fu concessa fin dal 1413 anche dal doge Michele Steno e dalla comunità di Padova.
La morte dei coniugi
Dopo la morte di Baldo Bonafari, avvenuta intorno al 1417, l’opera fu portata a compimento dalla moglie Sibilla che nel testamento del novembre 1421 chiedeva di essere sepolta nella nuova chiesa, i cui lavori stavano per essere ultimati.
La prima chiesa di san Francesco
L’edificio era a croce latina, in stile gotico e fu consacrato il 24 ottobre 1430.
Alla metà del Quattrocento il cronista Savonarola la definisce «templum quidem magnum», anche se alla fine del secolo era già insufficiente per la comunità dei Minori.
Un affresco della Sala della Carità della seconda metà del secolo XVI, rappresentante Baldo e Sibilla inginocchiati, con a lato la loro opera, ci dà l’idea di quello che doveva essere la chiesa al compimento dei lavori.
Era assai più piccola dell’attuale, ma più proporzionata.
Il convento
A sud della chiesa sorgeva il conventino, formato da un unico chiostro: il primo costruito, nel Veneto, espressamente per i Francescani dell’Osservanza, movimento riconosciuto giuridicamente nel concilio di Costanza, il 9 ottobre 1415.
Il conventino fu santificato negli ultimi anni dalla visita di san Bernardino da Siena, venuto a Padova nel 1423 e nel 1443, e dal beato Bernardino da Feltre che qui ricoprì la carica di superiore.
L’impegno dei frati francescani
Il primo ministero esercitato dai religiosi francescani fu presso gli infermi: ne fa fede la supplica rivolta a papa Eugenio IV nel 1444 per essere autorizzati ad assistere gli ammalati nel vicino ospedale, dove affluivano persone di diverse lingue e nazioni.
Il convento poteva mettere a disposizione religiosi per amministrare i sacramenti.
Documenti della fine del XV secolo testimoniano che i frati erano chiamati di giorno e di notte ad assistere i moribondi, nelle case private.
Durante l’epidemia di peste del 1576 e in quella del 1631, moltissimi dei religiosi si recarono con amore e competenza a predicare la parola di Dio nelle città e nei borghi.
Un’attività apostolica multiforme, fatta di carità attenta a difendere i poveri, fatta di zelo per tenere vivo lo spirito cristiano nel popolo attraverso il Terz’ordine, o le devozioni prettamente francescane come quella verso l’Immacolata da cui sorse quella meravigliosa cappella.
L’ampliamento del ‘500
Agli inizi del Cinquecento si sentì il bisogno di ingrandire chiesa e convento per renderli più adatti all’aumentato numero dei religiosi e alle manifestazioni del culto.
Una deliberazione della Comunità di Padova del 30 ottobre 1500, approvò i lavori: la chiesa quattrocentesca a croce latina, gotica, con tre absidi e navata divisa dal coro, con tre cappelle comunicanti sul lato sinistro fu largamente ingrandita.
Fu costruito un grande presbiterio che accolse il nuovo coro, ideato, pare, dall’architetto Lorenzo da Bologna.
La navata quattrocentesca fu affiancata da due spaziose navate minori con cappelle.
La chiesa si arricchì ben presto di un buon numero di opere d’arte pittoriche e scultoree (di Paolo Veronese, Antonio Vivarini, Alessandro Varotari detto il Padovanino, Pietro Damini, Giovanni D’Alemagna, Girolamo Dal Santo, Luca Ferrari, Filippo Parodi, Bartolomeo Bellano).
Tra i benefattori una certa Navilia, moglie di Francesco Zabarella, che donava duecento ducati d’oro per la fabbrica della cappella maggiore, cioè l’attuale coro e presbiterio.
Il marito nel 1414 lasciava 50 ducati all’anno per cinque anni per la stessa cappella, sulla parete della quale in alto a sinistra si vede ancor oggi lo stemma di casa Zabarella.
Così pure nel 1502, Jacopo Roccabonella, guardiano della Carità, stabilisce che «elemosina sia datta a lj venerabili frati de san Francesco per la fabbrica dela sua jiesia per anni 2 continui, ducati 50 alanno».
Fra tutti i benefattori però emergeva la pia e ricchissima Caterina Malgarise.
San Francesco “grande”
È intorno a questo periodo che San Francesco viene chiamato con l’appellativo di “Grande”, sia nei documenti storici, sia dalla voce popolare.
Si voleva distinguerlo da un altro San Francesco detto “Piccolo” che, secondo lo Scardeone, si trovava in via Altinate, dove poi sorse il convento dei Teatini.
Secondo il Portenari monastero e oratorio di San Francesco Piccolo sorgevano fuori porta Saracinesca. Il complesso risaliva al 1123 e fu abbattuto nel 1509 a causa dei lavori del guasto.
Il secondo chiostro nella sua maestosa forma romboidale, con i suoi poggioli, con quattro grandiose bifore, il suo dormitorio e la biblioteca era quasi compiuto nel 1516.
Tale era San Francesco alla fine del 1500: ma crebbe ancora e raggiunse il suo massimo splendore nel 1600 e nella prima metà del 1700.
Poi vennero le leggi vessatorie della Repubblica Veneta e la soppressione napoleonica.
La soppressione napoleonica
I frati vennero cacciati da San Francesco con il decreto napoleonico del 25 aprile 1810 e abbandonarono il convento il 31 maggio.
La chiesa fu depredata e il convento andò in rovina.
Nel 1810, quando furono cacciati dal convento, c’erano in San Francesco 26 sacerdoti, 3 chierici, 2 fratelli professi, 12 terziari.
Incerte sono le notizie della famosa biblioteca Carmeli, costituita da 40 mila volumi, già posta sotto la tutela della Repubblica Veneta.
La presenza del clero secolare
Mentre, a causa delle soppressioni napoleoniche, la comunità dei Minori Osservanti lasciò l’edificio e il convento, nello stesso anno 1810 San Francesco diventò chiesa parrocchiale curata dal clero secolare e assorbì la parrocchia di Santo Stefano, che già comprendeva nel 1808 le parrocchie di San Lorenzo e San Giorgio.
Nel 1827 il governo austriaco cedeva metà del convento al parroco di San Francesco, per uso di canonica, e alla fabbriceria, per ragioni di culto; l’altra metà, la migliore, all’Università per installarvi la scuola di zoologia e veterinaria.
La facoltà di Veterinaria funzionò nella sede di San Francesco fino al 1871, quando il vasto edificio diventò proprietà del comune e fu destinato a ospitare una scuola magistrale femminile.
La chiesa ebbe una sorte più fortunata.
Per «benigna concessione del governo» fu provvisoriamente lasciata aperta, poi fu permesso di trasferire a San Francesco la sede della parrocchia, che era intitolata a San Lorenzo, ma che aveva sede nella chiesa di Santo Stefano.
A San Francesco, dopo le ripetute depredazioni (in particolare quella del 1796 a opera della soldataglia francese) era rimasto ben poco.
Il primo parroco di San Francesco (1810) fu don Antonio Penso.
Gli successe nel 1851 don Giuseppe Fascina; nel 1865, don Francesco Fontanarosa; nel 1894, don Giovanni Bolognin, che fu l’ultimo parroco prima del ritorno dei Francescani al loro convento e alla loro chiesa.
Il ritorno dei frati francescani
I frati ritornarono il 4 gennaio 1914, a 104 anni dalla loro cacciata. Ritornarono nove frati, di cui cinque sacerdoti.
Fu un lieto ritorno, ma quale desolazione, quante rovine! Il titolo di “Grande” per San Francesco era un triste rimpianto e un doloroso anacronismo!
La piccola famiglia francescana si mise subito al lavoro, con coraggio e con francescana fiducia nella Provvidenza per riportare San Francesco alla grandezza del passato.
Lavori di restauro e di abbellimento furono eseguiti con paziente fatica e con l’aiuto di generosi benefattori.
Il ritorno del clero secolare
Nel settembre 2020 la comunità dei frati minori ha lasciato la parrocchia di San Francesco in Padova, come ha deciso la provincia del Nord Italia dell’Ordine.
A partire dal 4 ottobre 2020 il nuovo parroco della parrocchia di San Francesco è don Massimo De Franceschi.