L'AMPLIAMENTO DEL '500 - San Francesco Grande - Padova

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IL RITORNO 1914-2014
Ospedale, chiesa e convento
L’ampliamento del Cinquecento
 
Il primo documento attestante l’intenzione di rinnovare l’assetto originario predisposto dai Bonafari è rappresentato dalla donazione a favore del convento e della chiesa degli Osservanti da parte di Antonia Mazzucato, stabilita con atto notarile del 31 ottobre 1457 e finalizzato «pro ampliando ductam ecclesiam et locum predictum». Il progetto viene inoltrato dai frati al consiglio della comunità di Padova il 19 marzo 1500 con una supplica, per ottenere dei terreni occorrenti alla nuova fabbrica, da aggiungersi a quelli del preesistente conventino «molto stretto e non capaze». Essi ritengono «far cosa grata utile e proficua alla città» ampliando il convento «verso gli Vignali contrà». I frati intendevano ingrandire il convento verso la contrada dei Vignali, cioè verso levante e meridione, usufruendo sia delle case e degli orti in loro possesso sia dell’area allora richiesta alla comunità. L’intera proprietà veniva così a confinare a levante con una via comune che si sarebbe chiusa. Dalla stessa richiesta si capisce che l’area in questione confinava da una parte con l’orto dell’ospedale. E tutto ciò per «redure la chexia capace al predicar e el monaserio ad habitatione necessaria al numero de li frati».
Dai pochi documenti di archivio sappiamo che i lavori iniziarono e riguardarono sia l’ampliamento della chiesa, con la costruzione di due navate laterali, sia del nuovo convento. Il Consiglio della città il 30 ottobre 1500 eleggeva «tres cives probos et expertos bonae vitae et condicionis», tre cittadini onesti ed esperti nel campo per l’amministrazione dei due cantieri e delegati a seguire i lavori della chiesa.
Grazie alle donazioni a favore dell’opera degli Osservanti, in particolare quelle della ricchissima Catarina Malgarise, consistente in diverse case e 35 campi, si procedette all’acquisto di altri terreni, sempre con il beneplacito dei deputati preposti dalla comunità cittadina: Annibale Capodilista, Francesco Curtarolo e Francesco Querini che, assieme ai rappresentanti della Scuola della Carità, Jacopo Roccabonella e Giovanni Salieri, firmarono l’8 febbraio 1502 l’atto di acquisto di altre proprietà connesse agli imminenti lavori nel convento. In quell’occasione era presente quel Lorenzo da Bologna, uno dei più qualificati architetti, allora attivo a Padova, e costruttore dei complessi di San Giovanni da Verdara, di Santa Maria in Vanzo e di Santa Maria del Carmine.
Il 5 agosto 1504 i frati si accordarono col capomastro ferrarese Biagio Bigolo, che aveva già realizzato la loggia del Consiglio in piazza dei Signori, e lo incaricarono della costruzione del dormitorio e delle celle, delle cantine e delle cucine del nuovo convento, da strutturarsi fin dalle fondamenta con archi e volte a crociera.
Intorno al 1509 si procedette all’acquisto di nuovo terreno, sempre verso la contrada dei Vignali, l’attuale via Galileo Galilei, al fine di «ampliare et accomodare el monasterio... e specialmente perché si potesse ridurre a perfezione il dormitorio già incominciato».
In questi anni era stata ultimata la costruzione della biblioteca che si trovava al piano superiore.
Dopo sette anni dall’incarico il capomastro Bigolo rinuncia all’incarico. Il cantiere viene portato avanti da due frati dell’ordine esperti nell’arte di costruire: frate Francesco da Piove e frate Paolo da Padova. Per le opere più impegnative si ricorse a un provetto capomastro Martin da Voltolina, attivo nel vicino cantiere della chiesa.
All’epoca della consacrazione della chiesa (24 ottobre 1523) pare fosse in gran parte ultimato l’innalzamento del nuovo convento che lo Scardeone definiva «latissimo et comodissimo».
Date le trasformazioni e gli ampliamenti subiti dall’edificio nel corso dei secoli, è assai difficile procedere oggi a una esatta localizzazione dei vari ambienti destinati originariamente alla vita della comunità. Il nucleo più rappresentativo e funzionale dell’impianto era costituito dai locali distribuiti lungo il quadriportico formato, nel nostro caso da pilastri in trachite a sezione ottagonale sostenenti arcate a tutto sesto, mentre al centro del cortile vi era un pozzo.
Gli ambienti riservati all’amministrazione e allo studio, il parlatorio, la sala del capitolo, il refettorio, i locali riservati alla vita comune e ai servizi come la cucina, la cantina e i depositi, si disponevano al piano terreno, mentre al primo piano, dove un tempo si aprivano le arcate di un arioso loggiato, erano dislocati i dormitori e le celle con i relativi servizi.
Su due piani dell’edificio si trovavano ben distribuiti i locali destinati allo studio di quanti seguivano all’interno la scuola di teologia, di celebrata tradizione, oppure frequentavano i corsi presso l’Università di Padova.
Non è difficile ancora oggi riconoscere nelle strutture e negli spazi della scuola Pascoli i caratteri tardo-rinascimentali che caratterizzarono il complesso ideato da Lorenzo da Bologna, malgrado le modifiche fatte in epoche recenti, col tamponamento delle arcate per ottenere alcuni locali a servizio della parrocchia, oppure per proteggere le aule dell’attuale scuola Pascoli. Basta osservare, all’interno dell’edificio scolastico, la distesa sequenza delle volte a crociera allineate lungo il quadriportico, oppure le ampie e luminose serie di volte a botte, a vela o a crociera lunettate nei locali occupati dalle aule a piano terra; strutture per caratteri stilistici del tutto simili a quelle innalzate dall’architetto emiliano nelle sue opere padovane e soprattutto nella vicina chiesa di San Francesco da lui ampliata con i nuovi spazi delle navate laterali, del transetto e del coro.
L’ampliamento della chiesa venne deciso dal Consiglio della Comunità con delibera emessa nel 1502 con la quale si permetteva che quattro colonne rubree, già nella vecchia loggia del Consiglio, venissero devolute come elemosina ai frati «pro fabbrica ampliationis ecclesiae Sancti Francisci».
La chiesa originaria, a una sola navata affiancata a levante da cappelle e dalla sacrestia, venne così ampliata nel Cinquecento con la costruzione delle due navate laterali e delle relative cappelle.
Per tali lavori si rese necessario abbattere le preesistenti strutture laterali sia della chiesa che del vicino convento, demolizioni volte ad ottenere lo spazio richiesto per l’innalzamento del transetto. Basti osservare a ponente l’interruzione della sequenza delle arcate del vicino piccolo chiostro la cui ala orientale fu del tutto occupata dall’inserimento delle nuove cappelle. Anche l’intervento nell’ala orientale della chiesa per l’ampliamento del corpo della navata e delle cappelle comportò l’abbattimento dell’adiacente corpo di fabbrica che corrisponde all’attuale porticato d’ingresso del convento.
La costruzione delle «quattro cappelle verso lo spedale» fu ultimata prima del 1523. Infatti i lavori eseguiti dal muraro Voltolina riguardarono l’intera facciata esterna, compresa la cornice di coronamento delle cappelle, i muri divisori delle stesse, otto mezzi pilastri, gli archi dei loro prospetti, le loro volte a crociera di copertura, le strutture di cinque nuovi altari compresi i loro gradini e la pavimentazione.
La chiesa quattrocentesca di San Francesco si presentava dotata, secondo alcuni studiosi, anche di un transetto, sebbene di questo non si faccia cenno nei documenti del 1416. Da un accurato esame delle murature esterne dell’attuale transetto, appare evidente il suo forzato innesto nelle strutture della navata. Infatti si nota lungo tutto il cornicione di coronamento del transetto «la sovrapposizione delle arcatelle cieche, ricorrenti lungo tutto il cornicione di coronamento del transetto, a quelle preesistenti del corpo principale della chiesa. Dal punto di vista costruttivo si presenta diversa anche l’apparecchiatura muraria quattrocentesca delle navate, di esecuzione assai curata proprio per rimanere a faccia a vista, al contrario di quella eseguita nei bracci sporgenti del transetto, piuttosto irregolare e sconnessa, forse adoperando materiali di recupero». Quanto agli altari e alle cappelle, è certo che furono innalzati una volta ultimati i lavori in chiesa. Nella cappella del braccio sinistro del transetto, ora dedicata alla Madonna della Salute, si trova infatti un’iscrizione marmorea che dichiara la cappella fondata e innalzata a fundamentis da Andrea Capodivacca; essendo questo benemerito fondatore morto nel 1528, si deduce perciò che l’opera fu ultimata alcuni anni prima. Anche le opere che si trovano nel braccio a ponente del transetto, oggi occupato dalla cappella del Crocefisso, furono innalzate con un contributo della Scuola della Carità, pervenuto nel periodo 1502-1504 per essere utilizzato nei lavori di ricostruzione della chiesa. L’architetto cercò di rapportare le strutture introdotte con quelle rimaste integre, accomunate stilisticamente dal gioco delle coperture, in particolare dalla sequenza delle volte a crociera poste a ricoprire navata e cappelle.
Nel Cinquecento i lavori in San Francesco prevedevano la modifica radicale della forma e delle dimensioni dell’originaria cappella maggiore che, infatti, fu abbattuta e ricostruita sviluppandola notevolmente verso meridione. Tra i benefattori troviamo sempre Navilia, moglie di Francesco Zabarella, che donava ai frati duecento ducati d’oro da impegnarsi nella fabbrica «capelle majoris ampliando», somma che si aggiungeva a un suo precedente lascito di quattrocento ducati, devoluti per le spese del coro. Anche Francesco Zabarella donava un’identica somma per la costruzione della cappella maggiore con l’aggiunta di altri cinquanta ducati all’anno per un periodo di cinque anni. I lavori furono portati a termini il 21 agosto 1520, lavori eseguiti dal solito muraro Martin da Voltolina. Lo sviluppo assunto dalla cappella maggiore era commisurato a contenere l’intera comunità officiante: di pianta rettangolare molto allungata, il coro termina con una testata absidale ad andamento poligonale, traforata da alte finestre e da tondi (occhi). Lungo tutto il perimetro superiore dell’abside corre una bellissima fascia dipinta a grottesche con inseriti i ritratti dei santi prediletti dall’ordine. È nell’architettura del coro, nel calibrato gioco delle sue proporzioni, delle sue strutture e forme che si riconosce pienamente la personalità dell’architetto Lorenzo da Bologna.
Secondo alcuni studiosi nell’attuale torre campanaria si potrebbero riconoscere alcuni caratteri del secolo 13°, nonostante nessuna fonte quattrocentesca riferisca in alcun modo dell’esistenza di un campanile nel complesso di San Francesco. Non possiamo escludere che nel corso del Quattrocento sia stato eretto un piccolo campanile, come era uso in tutte le chiese francescane. Se ci riferiamo alle sommarie indicazioni della chiesa nella pianta del Maggi (1449) e dello Squarcione (1465), il campanile si troverebbe a ponente, tra la chiesa e il vicino ospedale, in posizione diametralmente opposta a quella odierna. Ma uno studio più recente afferma che l’attuale campanile sia da collegarsi integralmente al cantiere cinquecentesco, come del resto si fa riferimento nel citato documento del 21 agosto 1521 riguardante i lavori portati a termine dal muraro Martin da Voltolina. In mancanza di documentazione certa, nulla esclude che lo si possa datare anche attorno alla metà del 15° secolo. Infatti, per le sue caratteristiche (l’uso corretto di elementi romanici, come le lunghe paraste collegate tra loro dalle sequenze di arcatelle cieche, l’uso delle ampie bifore ad arco tutto sesto nella cella campanaria) ben si accorda con l’uso degli stessi elementi lessicali desunti da modelli quattrocenteschi in situ.
I lavori di ampliamento terminarono nel 1523 e il 28 giugno si potè accedere alla chiesa per le celebrazioni dove «ognuno stava admirativi dela bellezza della chiesa che sé sta fata cussì presto et cussì bella» come annota un cronista.
All’inizio del Cinquecento fervono dunque i lavori per l’ampliamento della chiesa, ma non si fa alcun cenno nei documenti dell’epoca a lavori del vicino ospedale. In un documento più tardivo – datato 1647 – il delegato del vescovo Giorgio Corner, dopo aver visitato la chiesa e l’ospedale, fa un’interessante descrizione dei vari luoghi visitati, descrizione che corrisponde alla pianta dell’ospedale del 1813 a noi pervenuta.
Un altro resoconto del delegato del vescovo in data 1782 ci dà la stessa descrizione con qualche piccola variante.
L’ospedale era delimitato a nord da via San Francesco, dove tuttora esiste l’ingresso principale (al 94-III dell’attuale numerazione civica), dal confine della chiesa fino al numero 92. A est confinava direttamente con le strutture murarie della chiesa, della sua abside e delle altre costruzioni del convento (alcune trasformate in edifici scolastici all’inizio dell’Ottocento). A ovest era delimitato da via del Santo, dall’attuale numero 31 fino all’ingresso secondario dell’ospedale stesso (attuale ingresso dell’istituto magistrale al numero 57). A sud le mura dell’attuale proprietà Romiati facevano da confine, separandolo dal convento.
Attualmente dell’antico complesso ospedaliero rimane conservata la maggior parte degli edifici perimetrali che, all’inizio dell’Ottocento, furono rimaneggiati e adibiti ad abitazioni o a botteghe, mentre risulta demolita e trasformata a giardino la parte interna, dove esistevano le infermerie.
Osservando la pianta, troviamo sul lato nord, a pianoterra, la chiesetta: «Sotto lo stesso portico se si rivolge a mano sinistra chi esce dalla chiesa trova non molto discosto dall’ospedale... la chiesa stessa per gli infermi dell’uno e dell’altro sesso... di forma quadrata, alquanto oscura, benché sia con quattro finestre».
A due archi di portico dopo la chiesetta, procedendo a pianoterra, troviamo, sempre dal lato di via San Francesco l’ingresso principale, conservato tuttora integralmente al numero 94-III, attraverso il quale si accede al grande cortile (trasformato all’inizio dell’Ottocento con la demolizione del chiostro e la costruzione di sovrastrutture in muratura). Subito a destra dell’ingresso si accede ai piani superiori, attraverso un’elegante scalea in marmo tuttora visibile.
Il primo piano dell’ospedale doveva sicuramente contenere i saloni per le riunioni del consiglio dei dodici dottori del collegio dei Giuristi dello Studio ai quali spettava il governo del’ospedale. Si tratta di due grandi saloni lunghi 45 piedi padovani ciascuno (circa 12 metri), l’uno parallelo all’altro. Sul finire del Settecento furono trasformati in asilo per alcuni infermi e in scuola clinica per allievi.
Esaminando la facciata dell’ospedale dall’esterno, notiamo le quattro grandi finestre che occupano tutto lo spazio intermedio dell’edificio e che davano luce al grande salone. Nell’Ottocento questa parte nobile del fabbricato subiva un successivo rimaneggiamento in modo da essere adibita ad abitazioni private. Probabilmente la grande biblioteca Carmeli che viene descritta dal Brandolese, come fondazione esistente nelle mura dell’ospedale, doveva occupare lo spazio in prossimità del grande salone. Sappiamo che presentava affreschi sul soffitto eseguiti da Giuseppe Grù veronese (morto nel 1775), mentre sopra la porta si trovava il ritratto del fondatore Baldo de Bonafari.
Sempre al primo piano, confinante con le mura della chiesa grande, troviamo l’archivio antico, che conservò per tanto tempo le memorie dell’ospedale, assalito dalle truppe napoleoniche, che ne fecero man bassa.
Continuando l’esame dei fabbricati verso sud possiamo individuare una serie di locali divisi: in questo settore forse sono da ricercarsi le abitazioni del Priore e degli altri uffici di governo (è da sottolineare che la tavola a noi pervenuta rappresenta solo il pianoterra, le altre dei piani superiori sono andate perdute). Numerose le scale di accesso delle abitazioni dal pianoterra e i due pozzi per l’acqua. Ancora al pianoterra vediamo la casa del gastaldo, la cucina dell’ospedale e numerose cantine per gli approvvigionamenti, una grande stalla al pianoterra per l’alloggio dei cavalli che entravano dal portone secondario.
Il lato ovest dell’ospedale corre lungo via del Santo, dal numero 31 fino all’ingresso secondario al numero 57 (attuale ingresso dell’istituto magistrale). Si possono vedere varie sezioni di locali, di orti, di corti con cantine e un deposito per la legna, demolito nell’ultimo tratto per dar posto a palazzo Romiati, pregevole costruzione ottocentesca di Giuseppe Jappelli successivamente rimaneggiata. Queste case forse dovevano servire da abitazione dei medici e degli assistenti. Si noti una lunga serie tratteggiata di portici che conducevano da queste fino agli ingressi delle case degli infermi. A convalida di ciò esiste un medaglione dedicato a Gian Battista da Monte nella lunetta del portone al civico 51 di casa Romiati in via del Santo.
Percorrendo l’entrata secondaria a sud possiamo vedere, entrando nell’odierno istituto magistrale, come tutto si sia conservato intatto. L’ingresso era promiscuo: per i frati del convento che avevano un accesso secondario in fondo al lungo vicolo cieco e per le nobili famiglie Dottori e Lion. Da questo lato entravano anche i carri, i cavalli dei ministri e dei medici, le vettovaglie, le masserizie destinate ai magazzini. Il portone di questo ingresso è ora murato, ma lo si può ancora intravedere.
Le due ali a est che confinano con la chiesa e con l’abside e si dispongono a V (non esistono più, perché demolite nell’Ottocento per dar spazio a un giardino dove è stata rinvenuta anche un’anfora da farmacia del Cinquecento). Questi due edifici erano adibiti a infermeria. Nella mappa del 1813 sono visibili le due ali adibite a questo scopo. Le prime notizie di queste infermerie ci sono pervenute anche grazie alla descrizione fatta da un delegato del vescovo nel 1647.
La prima infermeria a pianoterra era riservata alla degenza degli uomini, era denominata “Sub titulo Crucis” e conteneva 37 letti. Al primo piano dello stesso edificio c’era un’altra infermeria per gli uomini intitolata “Sub titulo Pietatis” e anche questa conteneva 37 letti. L’altra ala di fabbricato che si trova a sud era adibita a infermeria delle donne, solo al primo piano. Quindi si ritiene che le donne ricoverate fossero in numero assai minore degli uomini.
Il numero dei letti aumenta nel Settecento. Tale notizia ci è data da un documento del 1763 in cui si dice che attraverso una porta al primo piano si entra in un lungo dormitorio per gli uomini, dove da una parte e dall’altra vi sono 70 letti e nell’angolo di mezzo c’è pure un altare che poteva essere visto comodamente da tutti gli infermi. Il dormitorio delle donne conta invece 55 letti «li quali si accrescono quando occorra». Probabilmente sopra l’altare esisteva la pala dell’Assunzione di Maria Vergine dipinta da Jacopo Palma il Giovane (1544-1628) descritta da Brandolese, autore di numerose opere.
I vari edifici dell’ospedale erano intervallati da cortili grandi e piccoli, che davano accesso all’interno. C’erano anche cinque pozzi per l’acqua, uno dei quali porta la data 1428, e due piccoli orti recintati da mura, dove forse si potevano coltivare piante medicinali.
 
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